è ciò che vuoi a fare la differenza, non ciò che non vuoi

E come fai a sapere ciò che vuoi? Non sarà mai abbastanza ascoltato l’antico detto “conosci te stesso”. 

Ma il punto è da dove partire. Penso dal silenzio e dall’osservazione.Imparare a rallentare, a osservarsi, e ascoltarsi e fare lo stesso con gli altri: rallentarli, osservandoli e ascoltandoli nel tempo, quando una frazione di secondo diventa infinito e impari a leggere colori e suoni, forme e visioni.

Poi, in fondo, così, mi sembra un bel vivere.

Asciugamano sulla testa

Novak Đoković, il tennista,  fa così quando sbaglia un punto. Mette un asciugamano sulla testa, smette di pensare a quello che è stato e va avanti. Perché pensare a cosa è stato ti manda fuori strada, anzi non ti manda proprio da nessuna parte e in quel luogo di nessuno puoi rimanerci per tantissimo tempo. Il gioco continua ma tu già non ci sei più.Non si tratta di dimenticare, si tratta di andare avanti e fare altri punti, arrivare alla fine del gioco.

E magari vincere. Ma non è quello il punto.

l’aternativa

<Ho un regalo per te> disse. […] <Voglio che anche tu impari a prenderti cura di te>

[…]

Rita le raccontò di un cerbiatto che si era mangiato le verdure del suo orto. Era una femmina, e si presentava sempre da sola. A niente erano serviti piatti di latta o pezzi di sapone per tenerla lontana.

<Alla fine ho piantato un po’ di lattuga e di spinaci per lei> disse ridendo. <E lei ha capito subito che quella parte di orto era sua. Non va più a mangiare nella zona principale>.


da Il nostro riparo di frances greenslade, Keller ed.

una donna

succede sempre sotto la doccia. è lì che arrivano le domande esistenziali. da non crederci. ma credo di averlo già detto. evidentemente non lo trovo ancora normale.dunque la domanda.

cosa fa di una donna una donna?

ecco cosa. 

prima affiora un elenco di verbi all’infinito poi perifrasi e infine quando lasci scorrere l’acqua e non pensi più a niente, resta una parola: 

vivere.

la stessa cosa che fa di un uomo un uomo.

il come è la differenza di genere.
se finalmente noi donne prendessimo in mano la nostra vita e vivessimo una volta per tutte, forse guarderemmo il mondo senza più paura.

qualcuna l’ha fatto, lo fa e lo farà.

purtroppo è solo qualcuna. e il 25 novembre un giorno per ricordare.

mi mancherai

credo fortemente che l’essere donna non si completi nell’essere madre e che essere madre non sia l’aspirazione più intensa e ultima dell’essere donna. a una donna dovrebbe essere detto ma non insegnato, una donna lo dovrebbe scoprire da sé, perché vorrebbe dire che, meravigliosamente, sta facendo della sua vita un’occasione per scoprirsi e capire chi è.

questo non toglie che restare incinta sia qualcosa di sbalorditivo.

non è perché una rimane incinta che sappia automaticamente e divinamente come essere madre, esattamente come un uomo non sa come essere padre. in entrambi i casi lo si impara ed è una cosa che non c’entra nulla col concepire.

concepire sbalordisce i soggetti attori, a volte in positivo a volte in negativo; né più né meno.

quando quel concepito lo si perde, l’effetto per entrambi gli attori di questo misterioso sbalordimento è il vuoto, e una strana sensazione di sbigottimento: come dal regno dei morti escono innumerevoli creature che quel vuoto l’hanno vissuto e taciuto, una schiera di penitenti come se fosse un segreto da tacere. un segreto che alimenta un’idea falsa di donna e un obiettivo da raggiungere, un marchio da togliere, una parola da temere, il fantasma della sterilità come se la vita non avesse più senso.

e questo portato culturale ti uccide. 

lo dico qui perché l’ho provato, ed è stato pazzesco capire quanto la cultura e lo stigma sociale ti avvolgono strappandoti la pelle. e tu non sai più chi sei.

è stato così che ho colmato quel vuoto con il dolore, un dolore totale, fisico che non se ne voleva andare.

due anni dopo quel fatto e l’inizio di quel dolore, ho creduto che sarei morta di dolore. davvero. quel giorno pensavo che non avrei superato la notte.

e poi. 

ho ripreso in mano me. 

ci sono voluti tre anni da allora. ho curato il mio corpo e il mio io; mi sono presa per mano senza guardarmi allo specchio, senza riflessi, senza paura, senza idee. io, il mio dolore, la mia vita e me. e l’amore senza il quale avrei finito per guardarmi riflessa in pregiudizi che non sono i miei.

e infine c’è stato un punto di rottura, qualcosa che mi ha detto: sei dunque giunta in un posto, a casa tua. 

è capitato alla fine di questa estate, fra le parole di un un bimbo di 5 anni. un bimbo libero a cui piacciono le barbie e pulire i pavimenti col mocio, gli piacciono le fate e urlare nei prati, volare con l’altalena, affrontare le paure per mano e decidersi fra un palloncino e un gavettone.

è stata un’estate a non nascondersi, a dirsi le cose sottovoce per uscire a correre a perdifiato e urlare.

è stato alla fine di tutto questo, mentre salivo in auto e lui mi guardava lasciandomi andare con lo sguardo, quando a un certo punto mi ha detto: mi mancherai. 

e lì ho capito che anch’io potevo lasciare andare i miei fantasmi. 

scrivere

c’è un’età o un momento, non so, in cui scrivere è una necessità. e quando scrivi e leggi ti interroghi. poi diventa un problema di temi, cosa e come e perché dire. poi per chi. e infine sono le parole. più passa il tempo più è un problema di parole. ma non riguarda il senso. penso troppo e scrivo poco.

grazie

l’elite italiana ha deciso di abbandonare il paese.

è ormai definitivo.

stiamo lottando per la sopravvivenza.

noi che non siamo l’elite ma siamo noi, vi porteremo il rinascimento.

e poi. 

vaffanculo.

fattene una ragione

il caso salverà il mondo.

non la cultura, non il bello, non l’istruzione, non l‘amore. purtroppo. e noi non siamo niente.

sì. dimenticheranno. è il nostro destino, non ci si può fare nulla. ciò che a noi sembra serio, significativo, molto importante, col passar del tempo sarà dimenticato o sembrerà irrilevante. ed è curioso che oggi noi non possiamo assolutamente sapere che cosa domani sarà ritenuto sublime, importante e cosa meschino, ridicolo. […] e la nostra vita, che oggi viviamo con tanta naturalezza, apparirà col tempo stanca e scomoda, priva di intelligenza, non sufficientemente pura, forse addirittura immorale. (anton checov)