credo fortemente che l’essere donna non si completi nell’essere madre e che essere madre non sia l’aspirazione più intensa e ultima dell’essere donna. a una donna dovrebbe essere detto ma non insegnato, una donna lo dovrebbe scoprire da sé, perché vorrebbe dire che, meravigliosamente, sta facendo della sua vita un’occasione per scoprirsi e capire chi è.
questo non toglie che restare incinta sia qualcosa di sbalorditivo.
non è perché una rimane incinta che sappia automaticamente e divinamente come essere madre, esattamente come un uomo non sa come essere padre. in entrambi i casi lo si impara ed è una cosa che non c’entra nulla col concepire.
concepire sbalordisce i soggetti attori, a volte in positivo a volte in negativo; né più né meno.
quando quel concepito lo si perde, l’effetto per entrambi gli attori di questo misterioso sbalordimento è il vuoto, e una strana sensazione di sbigottimento: come dal regno dei morti escono innumerevoli creature che quel vuoto l’hanno vissuto e taciuto, una schiera di penitenti come se fosse un segreto da tacere. un segreto che alimenta un’idea falsa di donna e un obiettivo da raggiungere, un marchio da togliere, una parola da temere, il fantasma della sterilità come se la vita non avesse più senso.
e questo portato culturale ti uccide.
lo dico qui perché l’ho provato, ed è stato pazzesco capire quanto la cultura e lo stigma sociale ti avvolgono strappandoti la pelle. e tu non sai più chi sei.
è stato così che ho colmato quel vuoto con il dolore, un dolore totale, fisico che non se ne voleva andare.
due anni dopo quel fatto e l’inizio di quel dolore, ho creduto che sarei morta di dolore. davvero. quel giorno pensavo che non avrei superato la notte.
e poi.
ho ripreso in mano me.
ci sono voluti tre anni da allora. ho curato il mio corpo e il mio io; mi sono presa per mano senza guardarmi allo specchio, senza riflessi, senza paura, senza idee. io, il mio dolore, la mia vita e me. e l’amore senza il quale avrei finito per guardarmi riflessa in pregiudizi che non sono i miei.
e infine c’è stato un punto di rottura, qualcosa che mi ha detto: sei dunque giunta in un posto, a casa tua.
è capitato alla fine di questa estate, fra le parole di un un bimbo di 5 anni. un bimbo libero a cui piacciono le barbie e pulire i pavimenti col mocio, gli piacciono le fate e urlare nei prati, volare con l’altalena, affrontare le paure per mano e decidersi fra un palloncino e un gavettone.
è stata un’estate a non nascondersi, a dirsi le cose sottovoce per uscire a correre a perdifiato e urlare.
è stato alla fine di tutto questo, mentre salivo in auto e lui mi guardava lasciandomi andare con lo sguardo, quando a un certo punto mi ha detto: mi mancherai.
e lì ho capito che anch’io potevo lasciare andare i miei fantasmi.