il signor pouget e la bambina

siamo seduti a un tavolo. davanti a me una citola di vetro blu e tanti pezzi di anguria fresca con due stecchini lunghi per mangiarla. restano in fondo al blu soffiato due semi marroni. infilzo i due semi. ora due gambine secche saltano fuori dalla ciotola e camminano verso la mia amica alla mia destra. sta arrivando il signor pouget annuncio. la ragazza mora sorride. manca qualcosa dice. prende un pezzo di anguria e la piazza sui due stecchini. ora il signor pouget ha un corpo. la signorina mora con la canottiera azzurra spezza il suo stecchino. ora il signor pouget ha le braccia e un collo. sul collo ci piazziamo un pezzo d’anguria mangiato a metà. il ragazzo alla mia sinistra prende il tappo blu dell’acqua. ora il signor pouget ha la testa e il cappello.

la bambina dell’altro tavolo ha gli occhi sgranati. la gurdiamo, sorridiamo. sono le due. il signor pouget è stanco, lo mettiamo a dormire su un letto di ananas ormai finita e divorata. più che un letto sembra una barca vichinga ma non crediamo che il signor pouget sia morto.

poco più tardi la bambina mangia le patatine e io le scatto una foto. passano cinque minuti e una mano piccola mi batte sulla spalla. ciao mi dice una voce. mi giro e rispondo ciao. come ti chiami? beatrice. sì beatrice, sono io quella del signor pouget ma tu, tu chi sei? io ho una cicingomma rosa. tu? io no.

quando non sai più chi sei o forse lo sai

Io stavo semplicemente scorrendo i titoli dei film del Trento film festival quando mi si è avvicinato. Non l’ho visto arrivare. L’ho sentito; la voce e l’odore. Un barbone mi sono detta. E in effetti.

Non amo parlare, conversare troppo ma conoscere la gente sì. Così ho conosciuto Alberto, finché ho potuto, finché il mio fisico non si è stancato di stare in piedi a prestare attenzione.

Alberto non ha scelto me, mi ha trovato e l’ho ascoltato.

Si è definito scalatore e l’abbigliamento ci stava. Quasi cieco, con evidente alopecia, a dispetto dell’odore e dei suoi abiti, voleva dimostrare di essere di origini nobili e molto colto.

Interessato alla storia e “alla gente che conta”, affascinato da conti contesse e marchesati, sembrava intestardito con gli ebrei e con la vita di Cesare Battisti, l’irredentista.

Non so cosa volesse davvero dirmi o dimostrarmi, ma mi è sembrato un individuo comune, il racconto di sé stridente con l’immagine, la necessità di raccontarsi a volte in modo quasi immaginifico anche a dispetto di quello che il corpo esprime; e il corpo parla, ci dice tantissime cose di noi, che spesso purtroppo ci sfuggono. La dissociazione capita.

Forse non è necessario sapere chi si è, a volte raccontare e raccontarsi storie aiuta, forse aiuta nelle fatiche.

Ha detto che la gente non studia e in Università sono tutti ignoranti. Ho risposto che la vita è dura, ognuno fa quello che può. Sto perdendo la mia intransigenza. La mia anarchia emerge placida. Ma la mia è un’anarchia del vivere in una società di indicazioni e qualche regola precisa. Sto cominciando a credere di più nei diritti sociali che quelli individuali. Senza diritti sociali, quelli individuali sono solo uno specchietto per le allodole.

p.s. ho googlato alberto sul web e pare sia o sia stato un commercialista, a meno che si sia preso un’identità

Danilo

L’ho incontrato tanti anni fa in uno spettacolo. Non ricordo nemmeno perché l’ho conosciuto. Tutto quello che ricordo è che mi metteva a disagio. Metteva a disagio molti ma non tutti e questo era per me fonte di ispirazione.

Poi mi invitò ai suoi spettacoli e io invitai altri a vederlo recitare. Di tutti gli spettacoli che mi chiese di vendere ricordo solo quello in cui bestemmiava. Ma lui non ha mai voluto guadagnare, voleva recitare e forse nemmeno quello perché credo che volesse creare e vivere.

Ogni tanto mi chiama o mi scrive; poche parole poche lettere per sapere che siamo ancora qui.

Mi ha telefonato qualche tempo fa per vendermi il suo secondo libro. Non glielo pubblicano e così se l’è pubblicato. Sono racconti, 47 pagine formato cartolina compresa la dedica, il curriculum e un bella introduzione di un amico. I racconti non vanno più anche se la Munro ha vinto il Nobel.

Non me l’ha venduto per soldi, ma sempre per quel fatto di creare ed esistere.

Ci siamo visti in centro, una passeggiata due chiacchiere; teneva il libro in una cartella a tracolla.

Di tutto quello che mi ha detto, si è tenuto la cosa più importante per lui alla fine, come un testamento. Vorrebbe essere ricordato come uomo e come artista indipendentemente dalle etichette che sa di avere e che gli mettono addosso.

Ho letto il suo libro. Lo trovo poetico e geniale.
Ho deciso di pubblicarne degli stralci. Sarebbe un peccato che andasse perduto.

così è la vita

c’era una ragazza che oggi non c’è più.

questa mattina è morta di cancro al cervello.

lo scrivo qui perché non credo che sia una cosa intima ma pubblica, lo scrivo perché ieri ho ascoltato concita de gregorio, michela murgia e fabrizio gifuni parlare di morte e di come si stia perdendo la semplicità di pronunciare la parola morte, non parliamo poi di cancro tanto più se associato al cervello.

un tabù.

non se ne parla, non si portano i bambini ai funerali. il brutto, il malato, la morte di cui è piena la nostra vita di ogni giorno è bandita dalle nostre parole e piano piano dalla quotidianità finché non ci caschi dentro e ti nascondi dopo che ti hanno ben nascosto.

giusto ieri raccontavo di come io sia andata a molti più funerali che matrimoni, moltissimi di più. per dire che il numero dei matrimoni superano di poco le dita di una mano, mentre ho perso il conto dei funerali. non riesco a capacitarmi di questa cosa. cos’ho che non va? perché non mi invitano ai matrimoni?

ma insomma ho visto tanti morti, sì non pensavo di essere in controtendenza e se penso a me posso dire di essere una persona che ama la vita, non ricordo traumi per aver frequentato i morti, quelli li ascrivo a fatti accaduti coi vivi e spesso dovuti alle parole, a cose dette o non dette.

è anche vero che ho una piccola mania: ogni tanto penso a qualche morto, alle mamme delle mie amiche, ai parenti, agli amici, ai ragazzi che ho conosciuto, li penso e mi ricordo di loro nei momenti inutili, in un momento qualunque di una giornata qualunque che ci è capitata e talvolta ci parlo. tranquilli, non mi rispondono. mi fa piacere ricordarli così com’erano nei loro giorni qualunque. un po’ pirandelliana come cosa forse.

anche di questa ragazza che è morta prima dell’alba mi è venuto in mente uno di quei momenti. un mattino freddo e ventoso mentre percorrevo una strada in macchina l’ho vista in bicicletta andare verso la metropolitana con un viso sorridente e concentrato; faceva un freddo becco e ho pensato che aveva una tempra pazzesca che io manco a scudisciate ci sarei andata in bici e ho pensato a quanto fosse forte oltre che bella. ma come fa? mi sono chiesta. mi viene in mente lei di spalle in bicicletta mentre va.

di piccoli momenti mi piacerebbe che fosse ricordata non nel pianto collettivo di facebook.

certo ognuno ha la sua sensibilità.

così lo scrivo qui. quando morirò spero si faccia una festa e vorrei che tutti si raccontassero le stronzate che ho fatto e detto in vita, spero che tutti ci rideranno su.

Considerate la vostra semenza

Ciro ha sessantanni ed è praticamente analfabeta.

Lo so, non vuol dire niente praticamente: lo è o non lo è. Le cose stanno così, lo è e non lo è.

Lo so perché l’ho visto. Anzi, l’ho letto. Mi ha fatto vedere un foglio dove aveva scritto delle cose che dovevano essere nell’ordine: recriminazioni, un lamento di amara angoscia, un’imprecazione, speranze a cui mai si crede e che sono miste all’orgoglio.

Mi ha detto leggi e dimmi cosa ne pensi. Ma non si poteva leggere quella roba lì. Era roba, non era scrittura. Parole inventate o sconnesse, frasi traballanti che al primo alito di vento sarebbero cadute. Ho pensato che non si possono fare recriminazioni in quel modo. O sì?

Ciro comunque è così che scrive ed è così che in parte pensa. È che non vuole smettere di pensare, dice. [fatti non foste a viver come bruti]

Continuava a guardarmi Ciro; voleva la mia approvazione. Mi sentivo in un vicolo cieco. Ciro cosa vuole che le dica? Che con quello che ha scritto finalmente capiranno? Capiranno cosa desidera? Come possiamo saperlo? Mi dica ha fatto tutto quello di cui era capace? In cuor suo pensa di aver capito bene cosa vuole?

Il signor Ciro annuiva, era convinto che gli mancassero forse le parole e i pensieri belli.

Il signor Ciro un giorno ha preso da uno scaffale un libro scartato perché vecchio e logoro. In copertina si stagliava il nome dell’autore: Hegel, il titolo credo fosse “Lezioni sulla filosofia della storia” ma poteva essere benissimo “Fenomenologia dello Spirito”, sinceramente non ricordo quale dei due; ricordo benissimo invece i giorni in cui il signor Ciro veniva da me con vocabolario in una mano e il libro nell’altra a chiedermi conto di alcuni vocaboli. [ma per seguir virtute e canoscenza]

Sinceramente a volte avrei voluto prendere quel suo vocabolarietto e sbatterlo contro il muro pronunciando al contempo una sana imprecazione. Non so ancora cosa mi abbia trattenuto.

La infastidisco non è vero? Mi ha detto a un pomeriggio di sole. Ma no, signor Ciro, non è questo il punto. Però ammetta, aveva continuato, impara cose nuove anche lei. Sì Ciro ho imparato che non so spiegare concetti difficili con parole semplici, che spieghiamo concetti facili con parole difficili e che a volte riportare tutto al terra terra diventa anche più umano, che il mio vocabolario è pessimo e ho imparato la parola olocrazia e su questa parola ci ho riflettuto su, ho riflettuto sulle degenerazioni.

Sono passate settimane e il signor Ciro un bel giorno mi ha detto ho finito, cosa leggo adesso?

Non saprei, gli ho risposto.

Mi hanno consigliato Kant, un titolo con la ragione, pura forse. Me lo consiglia?

No signor Ciro non glielo consiglio ma se vuole lo prenda, si chiama Critica della ragion pura. Lo legga se vuole.

Lo sta leggendo. Qualche giorno fa ha dichiarato che gli si stava fondendo la testa.

Smetta di leggere, gli ho detto.

Ancora oggi lo vedo il signor Ciro seduto su un banco chiaro con un libro, un quadernetto, una penna e un vocabolario. Chino sui suoi testi. Puntiglioso. Dice di imparare parole e che un giorno si metteranno a posto. S’informa su chi era Kant e chi Hegel, ascolta. Ancora non sa scrivere.

ogni cosa è e non è ciò che sembra a prima vista

io c’ero ieri sera.

a volte penso di non esserci abbastanza. sulle cose, sul pezzo.

sulle persone invece è un altro paio di maniche. credo che bisognerebbe starci ma non addosso come serve sulle cose per renderle proprie (forse perché non dovrebbero essere proprie le persone). anche su se stessi non bisognerebbe stare addosso: invece liberare aria (mio nonno infatti diceva che c’è più aria fuori che dentro, ma era per un altro fatto che lo diceva. comunque.) e volare con un sano pragmatismo, altrimenti le idee diventano principi e i principi diventano dictat e poi vengono pensieri tipo di intolleranza.

ad ogni modo io c’ero ieri sera al teatro dal verme. c’è un’iniziativa che si fa tutti gli anni a milano e si chiama “la milanesiana”. incontri, dibattiti musica.

ci sono andata per jonathan coe e per paolo fresu. uno scrittore e un trombettista. “tromba con la scrittura”, una roba da maschi o da sfigati poteva sembrare; è pur vero che con le parole si tromba, se sai contarla su bene ma non di sole parole vive l’uomo.

insomma quello che volevo dire è che la serata ha ruotato intorno ai paradossi. e ne han dette di belle. bella soprattutto la voce di coe: chiara limpida come il suo testo, e tagliente. ha parlato di satira l’inglese col suo humor.

ha detto [qui tutto il testo] che a volte si scrive satira pensando di cambiare le cose e invece si finisce per avere un drappello di soggetti che ti leggono perché la pensano come te e l’unica cosa che si riesce a fare è mantenere lo status quo.

mi si è raggelato il sangue. e adesso? sarà mica vero?

a volte pare sia proprio così. tu fai dici scrivi e le cose cambiano a modo loro. non sai mai davvero come. non sai mai davvero quando. io mi dico liberare il pensiero è una cosa, una cosa bella. perché ogni cosa è se stessa ma anche altro. spesso non è ciò che sembra a prima vista.

così. se avete qualcosa da fare e anche se non avete niente da fare, se il caldo attanaglia, se state abbracciando il condizionatore che poi magari vi ammalate, se state lavorando o siete in vacanza, non importa, trovate il modo per ascoltare chi ho amato ieri sera. liberate il pensiero.

fatelo. provateci.

il piano del cubano omar sosa, le percussioni dell’indiano trilok gurtu e la tromba di paolo fresu. ascoltateli. niente vi sembrerà più lo stesso.

Il tempo passa e noi dove stiamo?

Dieci anni. Dieci estati, dieci inverni. E le primavere pure. Forse meno sono stati gli autunni, ché a me passano più veloci tranne quest’anno che è stato un lampo da dicembre a oggi e non me ne capacito, schiaccio il freno ma devo aver messo in folle. Forse è grave dal momento che credevo di essere in salita.

Comunque dicevo sono dieci, più o meno gli anni che son passati.

Poi l’altro giorno è entrata Caterina. Signorina c’è un Signore che chiede di lei, lo faccio entrare? Cavolo, volevo solamente finire e uscire, magari mettere la terza, anche al cambio, mi pareva una velocità di tutto rispetto seppur non troppo forte. Mi sono sentita dire sì certo ma non ho prestato attenzione. Ho alzato il volto e mi si è sbiancato. Dieci anni e si è ripresentato dicendo ciao vediamo se mi riconosci.

Certo che ti riconosco. E so bene che della cricca d’amici sono quella che non hai invitato al tuo matrimonio per rispetto a tua moglie -ho capito bene?- e lo hai fatto che eri giovane, che te ne sei andato in un altro paese e che poco dopo l’undici settembre mi hai scritto una mail perché avevi paura degli attentati, che sei quello che mi chiedeva sempre conto delle mie scelte, che sapeva cosa fare quando io no.

Mi hai detto che sapevi di me ma negli ultimi anni di meno. Sei diventato un pezzo grosso, di chiacchiera ne avevi tanta. Mi hai chiesto del passato. La tua vita in realtà sembrava ferma a quindici anni fa, a noi ragazzini amici un po’ cretini. Eravamo solo amici. E le cotte allora erano grandi certo ma eravamo ragazzi.

Com’è che per me il passato è passato e per un sacco di gente il passato è tremendamente presente?

Perché non vuoi sapere chi sono ora e se se sono felice di quello che sono diventata? Perché mi dici che mi vedi un’ottima mamma? E la donna che sono? Che ne sai della donna che sono?

Menù turistico

Estate. Ore 13.30

Due turiste alla cassa del supermercato:

  • 2 Coca-Cola light (che schifo l’aspartame)
  • 2 porzioni mignon di Nutella da 30g
  • 2 brik da 1 litro di Tavernello
  • 1/4 di Caciotta da 150g

io e il mio panino al prosciutto e bottiglietta d’acqua ci sentiamo inadeguati.

Dovessero tassare la Nutella sparirebbe anche il formaggio? Non sia mai …

Maria e la morte

Non ho fatto a patti con la morte, l’ho solamente guardata, in faccia. L’ho vista tante volte che mi fa ancora paura; l’ho vista e mi ha riconosciuto. Una volta è venuta da me e se n’è andata, non le ho detto ‘azz vuoi. L’ho guardata e sono stata ferma. Se devo dare un immagine di me direi immobile a fissare. Così l’ho guardata. L’ho fatto perché mia mamma mi ha insegnato a farlo. Ricordo i funerali più di qualsiasi altra cerimonia, ricordo le camere mortuarie.

Non ha il gusto del macabro la mia mamma. Pensava forse che avrei apprezzato di più la vita. Non lo so, so che oggi amo di più le persone. Anche gli stronzi.

Quando avevo due anni, i miei genitori mi hanno portato a vivere in un posto che ha due peculiarità: il maggior numero di laureati per abitante, il maggior numero di suicidi per abitante. Non so se le due cose siano correlate, la responsabile della biblioteca dove studiavo quando ho fatto la maturità disse di sì. Disse che ci facevamo troppe pippe mentali, troppi pensieri in testa che non sapevamo dove mettere. Mi disse studia con determinazione ma vai a lavorare. Ho sempre lavoricchiato. Forse per quello mi sono salvata. Non lo so.

Ho visto tanta gente morire. Ma non ci ho fatto il callo. Ogni volta sto ferma immobile a osservare senza pensieri.

Maria la conoscevo da quando era bambina. Era poco più piccola di me. Schiva e felice. Fino all’adolescenza. Col tempo è rimasta solo schiva. Si è tagliata i capelli, ha eliminato quasi ogni elemento di femminilità. Non la vedevo da tempo. Poi un giorno mi è comparsa davanti. Alzava gli occhi al cielo quando ti parlava. Non un sorriso, non un gesto in più, poco contatto visivo. Leggeva. Non so se avesse ripreso a leggere. Leggeva. Leggeva cose durissime. E io avrei voluto entrare in quelle parole perché fossero più facili, più luminose, avrei voluto tirare quelle parole e farle diventare farfalle.

Deve essere stato un mese fa. L’ho guardata, mi ha sorriso. Ho pensato finalmente.

La settimana scorsa era alla finestra. Ottavo piano. Deve aver voluto sapere com’è volare.

Rosalba dice che ci vuole coraggio per lasciarsi andare. Dice che non è facile, che il nostro istinto di sopravvivenza è più forte.

Dici che era una ragazza che aveva coraggio? Mi ha chiesto.

Non lo so Rosalba. Non so niente.

E ripenso al tuo sorriso piccolo fiore di campo.